“Perché diventare grandi?” titola un libro di Susan Neiman, filosofa morale di Harvard, che in questi giorni sosta sul mio comodino. Senza usare paroloni, trovo la sua analisi molto interessante e ve ne porto qui qualche stralcio come spunto di riflessione.
La posizione di Neiman è che non essendo riusciti, nel corso delle generazioni, a creare una società in cui i giovani vogliano crescere, noi idealizziamo la giovinezza.
Guardiamo i bambini: la gioia e l’eccitazione con cui la maggior parte di loro accoglie ogni aspetto del mondo sono palpabili. Sono così diversi da noi “grandi” al punto che ne invidiamo la freschezza e l’ingenuità. Finiamo però col dimenticare quanta paura e frustrazione si accompagnano a ogni loro piccolo progresso, dallo stare in piedi senza cadere alla paura del buio, dai distacchi alle esperienze dolorose che non sono in grado di comprendere.
Che dire poi delle fasi di vita seguenti. Si dice, ad esempio, che il tempo migliore della vita sia quello che va dai 16 ai 26 anni circa, quando il corpo è sviluppato e nel pieno delle forze, e possiamo goderne e godere della socialità senza obblighi e responsabilità, che arriveranno in seguito, quando saremo uomini e donne. Al contrario, quel decennio può essere per gli adolescenti e i giovani adulti un tempo di grandi difficoltà, di scontri con i genitori, con le regole, non accettazione del proprio corpo, isolamento, difficoltà di relazione e molto altro. Descrivendolo come il più bello dei periodi non facciamo che renderlo ancor più difficile per chi lo attraversa, che oltretutto guarderà agli anni successivi con terrore (visto che, a quanto sente dire, sarà ancora peggio!).
Insomma, il punto è che la vita adulta ci viene presentata come un continuo declino, in cui il matrimonio è la tomba dell’amore, si lavora per pagare le bollette e si tira avanti fino alla pensione, tra routine, noia e l’incalzare dell’età. Dove le eccezioni a questo copione sono rare e spesso si condensano in stili di vita pericolosi (si vedano le vite “ribelli” di molti artisti): come dire, o l’uno o l’altro..
Dunque perché mai dovremmo voler crescere? Perché non fare di tutto per rimanere giovani per sempre, attaccandoci a sogni e speranze dell’infanzia?
Visto il quadro che ci viene presentato, ci vuole coraggio per crescere e diventare adulti nel vero senso del termine.
Il coraggio serve per far convivere sogni e responsabilità, per accettare la distanza, sempre presente nella nostra vita, tra ideali e sogni da una parte ed esperienza dall’altra. Crescere significa confrontarsi con lo scollamento tra i due senza abbandonare né gli uni né l’altra. I più, infatti, tendono a rinunciare ad una delle due cose. C’è chi rimane incollato ai sogni e agli ideali della giovinezza, cocciutamente ignorando la realtà che lo circonda, cadendo magari persino nel dogmatismo, ribellandosi al grigiore del mondo adulto che ha “tradito” le promesse. Altri, invece, aderendo alla realtà come carta da parati, si ritrovano delusi, disillusi o, peggio, disperati e relegano sogni, ideali e principi nell’armadio, concedendoli solo ai pazzi, ai giovani o agli artisti e definendosi “realistici”. Ma anche questo atteggiamento non è molto coraggioso.
La posizione che richiede più coraggio è ammettere che ideali ed esperienza hanno gli stessi diritti. Che senza i primi perdiamo una parte di noi preziosa e senza la seconda non diventiamo adulti. Crescere e diventare grandi significa rispettarli entrambi e cercare di soddisfarli al meglio, sapendo che potremmo non riuscirci mai del tutto, ma tentando sempre. L’adulto allora fa il possibile per portare la sua vita nella direzione in cui vuol farla andare (sogni e ideali), senza perdere di vista il modo in cui, in ogni dato momento, essa è (la realtà dell’esperienza). Consentendole lo spazio per cambiare, lavorando perché ciò possa accadere ed, al contempo, osservandola, accettandola e, perché no, amandola come è.
Ci vuol coraggio per accettare nuove credenze, credere che la vita possa essere altro da quello che ci viene insegnato, viverla a fondo impegnandosi per fare andare le cose in un certo modo e contemporaneamente rischiare che non vadano come avremmo voluto.
Per fare questo, diventa fondamentale sviluppare e affidarsi al proprio giudizio: “tutto il sapere del mondo non potrà mai sostituire il fegato che ci vuole per fidarsi del proprio giudizio, che può essere appreso – specie osservando chi ne fa buon uso – ma non insegnato”, scrive Neiman.
Diventare norma a se stessi, dice Salvatore Natoli, costruirsi la propria etica, ovvero il proprio personale modo di stare al mondo, per non rimettersi ciecamente al giudizio dei genitori, dello Stato, degli altri in generale. Che non vuol dire che sbaglino o che non vadano ascoltati di principio. No, anzi, ammettere quando hanno ragione è coraggioso e dimostrerà che abbiamo giudizio e che siamo cresciuti.
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